Il mondo del giornalismo si sa, è una vera e propria giungla.

Bisogna avere coraggio per dire quel che si pensa e, soprattutto, bisogna avere talento per riuscire a farlo bene.

Non tutte le testate giornalistiche né le case editrici sono disposte a tollerare i liberi pensatori che danno voce a settori di nicchia. Eppure anche questi freelance hanno diritto ad esprimersi, a lavorare e quindi a recepire un compenso.

Dalla crisi della carta stampata al fiorire delle piattaforme di informazione online

Esistono molte piattaforme per giornalisti e scrittori freelance che permettono loro di rendere accessibili al pubblico i loro scritti, e l’utilizzo di queste è sempre più in crescita per diversi motivi: il primo, che riguarda un po’ tutto il mondo occidentale, è senza dubbio la crisi dell’editoria e della carta stampata.

Il secondo motivo invece è facilmente individuabile nella pandemia di Covid, che ha portato con sé oltre che la crisi sanitaria, anche la crisi economica, colpendo duramente sia imprenditori che consumatori.

Se poi a questa aggiungiamo gli effetti del lockdown, durante il quale ognuno di noi era confinato nella propria abitazione senza poter uscire di casa neppure per acquistare un quotidiano, si riesce facilmente a comprendere il perché dell’ascesa di queste piattaforme di informazione dedicate soprattutto al giornalismo freelance.

Tra le più famose che permettono e promettono una buona fonte di guadagno tramite l’utilizzo di newsletter troviamo, ad esempio, Tinyletter e Mailchimp che però non hanno un funzionamento particolarmente intuitivo.

Bufera Substack: l’azienda e l’accusa che l’ha colpita

Ma la piattaforma che proprio in questi giorni sta facendo molto parlare di sé è Substack.

Azienda fondata nel 2017 e che propone un modello di business piuttosto semplice: permette a qualsiasi azienda o giornalista di creare una newsletter che richieda un contributo economico su base mensile o annuale per essere letta.

Da questa sorta di “abbonamento”, Substack trattiene il 10% delle entrate totali di ogni newsletter, permettendo così ai giornalisti di ricevere un compenso e a se stessa di crescere finanziariamente.

In questi giorni Substack è entrata nell’occhio del ciclone a causa di un nuovo progetto di finanziamento scrittori e di alcuni contenuti pubblicati che sembrerebbero essere offensivi riguardo determinate comunità come, ad esempio, quella transgender.

L’accusa

L’accusa, portata avanti dalla scrittrice Jude Ellison Sady Doyle la scorsa settimana, è che, sebbene Substack si presenti come una piattaforma dedita alla libertà di opinione ma pur sempre rispettosa dei valori come civiltà ed educazione, molti dei contenuti pubblicati sono “offensivi e prodotti da persone che odiano attivamente trans e donne, e che discutono incessantemente contro i nostri diritti civili”.

Il progetto in questione è Substack Local, iniziativa da 1 milione di dollari che finanzia scrittori indipendenti che creano pubblicazioni di notizie locali, ai quali l’azienda offrirà anticipatamente fino a 100.000 dollari e l’accesso convenzionato all’assicurazione sanitaria. Di ritorno, per tutto il primo anno, Substack tratterrà l’85% dei proventi prodotti dagli abbonamenti generati anziché il 10% standard, tariffa alla quale si tornerà al termine del primo anno.

Anche se, di fatto, non è il progetto in sé a essere tacciato di odio razziale ma più che altro il macro sistema che permette a contenuti così offensivi di essere pubblicati, molti autori di diverse etnie e facenti parte di diverse comunità hanno appoggiato quanto detto dalla collega Doyle e, di conseguenza, hanno preferito spostare le loro produzioni letterarie e il loro seguito di accaniti lettori in altri luoghi digitali.

L’accusa, non troppo velata, sostiene che questi contenuti per così dire “incriminanti” siano stati pubblicati senza alcun tipo di censura o controllo proprio perché ai vertici dell’azienda o come investitori vi siano persone che appoggiano questa linea di pensiero dal sapore ultra conservatore.

La difesa

Substack e il suo organizzativo si sono subito mobilitati per “placare le acque” e per difendersi da un’accusa così pesante e specifica in alcuni post resi pubblici che non solo non è di Substack la proprietà intellettuale degli articoli, ma degli stessi autori, sollevandosi così da ogni tipo di responsabilità, aggiungendo che la metà dei componenti del programma è donna, un terzo composto da persone di colore, e nonostante ci siano punti di vista sicuramente diversi non vi è “nessuno che possa essere ragionevolmente interpretato come anti-trans”.

La direzione ha poi sollecitato gli scrittori freelance facenti parte del proprio rooster a seguire pedissequamente le linee guida aziendali invitandoli a evitare di produrre composizioni offensive verso qualsiasi categoria. Inoltre ha chiarito che questa non vuole essere una sorta di censura ma solo il giusto modo di esprimere eventuali dissensi o perplessità su qualsiasi argomento: vale a dire elegantemente ed educatamente.

Anche se in Italia Substack non è molto conosciuta, c’è da chiedersi quanto questa accusa influirà sulla salute di un’azienda dedita alla libera informazione che, grazie a suoi progetti interni e alla qualità degli articoli pubblicati, solo durante i primi 3 mesi della pandemia aveva visto aumentare del 60% il proprio fatturato e il proprio pubblico raddoppiato.

E sarà proprio quest’ultimo, il pubblico, a decidere quale sarà il futuro di questa azienda in virtù di quanto questa accusa furiosa andrà a incidere sull’opinione pubblica.

Gli abbonati resteranno?

Nuovi giornalisti subentreranno a chi ha deciso di abbandonare la piattaforma?

Solo il tempo saprà darci risposta.

Articolo di Ilaria Calcagnolo